sabato 9 maggio 2009

LO ZIO DI LUCIA O DEGLI ERRORI IN MEDICINA


Fonti attendibili riportano che ogni giorno in Italia 400 persone vengono ricoverate in ospedale per malattie causate dai farmaci. In gergo si chiamano effetti collaterali ma in realtà sono vere e proprie malattie causate dai medicinali assunti per curarne altre o più spesso per prevenirle. Se 400 ogni giorno sono le persone che si ricoverano perché i sintomi ed i segni delle loro malattie da farmaci sono diventati così eclatanti da non poter essere gestiti senza il ricorso ad una struttura sanitaria, non saprei dire a quanti multipli di 400 ammonti il numero di coloro che patiscono delle stesse conseguenze in forma più lieve ma altrettanto inattesa e contrariante. Già, perché uno dalla medicina si aspetterebbe solo salute e non anche nuova malattia. Negli anni ’70 un sociologo di origine austriaca (ma assolutamente apolide), Ivan Illich, coniò un termine particolare per questo fenomeno della medicina moderna: iatrogenesi, che sta per generazione (di malattia) da parte del medico o della medicina. Illich attribuiva il fenomeno alla progressiva espropriazione dell’individuo e della sua comunità della capacità di guarire con il conseguente trasferimento in una istituzione esterna di questo potere. Se una critica così radicale alla istituzione sanitaria non troverebbe oggi, come allora, molti convinti seguaci, è invece tangibile la perdita di autogestione prodotta dalla moderna medicina e dalla pressione culturale del complesso mediatico-bio -industriale nella nostra società. Basti pensare al frequente riscontro di persone in perfetto benessere che chiedono al loro medico di eseguire esami diagnostici per sapere se stanno davvero bene.
Le malattie da farmaci non sono dovute solo alle proprietà del singolo medicinale, ma spesso alla interazione con altri farmaci oppure ad errato dosaggio. Lo zio di una mia amica, ricoverato in un ospedale di eccellenza della nostra regione per una frattura ad una vertebra causata da una caduta accidentale, è morto per una emorragia interna dovuta molto probabilmente al fatto che, anziché ridurre la terapia anticoagulante che eseguiva per una cardiopatia, se ne è aggiunta dell’altra provocandone il decesso. Che le cose si stessero mettendo male si poteva capire un po’ prima di quando si è inutilmente capito, se solo il medico di reparto avesse compreso il significato dei risultati di alcuni esami di sangue senza attendere l’allerta lanciato dal laboratorio. Per correre ai ripari la medicina ha creato una nuova disciplina, il risk management, cioè la gestione del rischio, che studiando gli errori cerca di comprenderne le cause ed individuare le correzioni necessarie per prevenirle. È un metodo nato in ambito militare che esprime senza dubbio buona volontà e desiderio di miglioramento. Tutto ciò richiederebbe una cultura degli errori che nel nostro paese non è sviluppata quanto nei paesi anglosassoni dove ogni errore importante è oggetto di analisi e discussione nello staff medico senza colpevolizzare nessuno. La gran parte degli errori in medicina sono dovuti, però, a stanchezza degli operatori, ad eccessiva confidenza con le procedure o a mancanza di controlli. Ma talora ad ignoranza dovuta non certo a mancato aggiornamento, ma ad una vastità delle conoscenze a cui la superspecializzazione e la supersettorializzazione della medicina non tengono più dietro. L’organizzazione dei nostri ospedali è ancora basata su una rigida suddivisione per discipline mentre l’ammalato ha sempre più bisogno di un’assistenza interdisciplinare. Se al letto della zia di Lucia si fosse da subito avvicinato il laboratorista esperto di coagulazione, molto probabilmente oggi sarebbe ancora tra noi.

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