lunedì 14 febbraio 2011

Simone Weil: ULTIME PAGINE



Credo in Dio, nella Trinità, nell’incarnazione, nella redenzione, nell’eucaristia, negli insegnamenti del Vangelo.
Ho detto che credo a queste verità, non che sottoscrivo a quanto afferma la Chiesa su di esse, affermandole come si affermano dei dati dell’esperienza o dei teoremi di geometria. Io vi aderisco grazie all’amore alla verità perfetta, inafferrabile, racchiusa in quei misteri e tento di aprire ad essa la mia anima per lasciar penetrare in me la luce.
Non riconosco alla Chiesa nessun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni dell’amore nell’ambito del pensiero.
Le riconosco invece la missione, come depositaria dei sacramenti e custode dei testi sacri, di formulare delle decisioni su certi punti essenziali, ma solo a titolo di indicazione per i fedeli.
Non le riconosco il diritto di imporre i commenti di cui ella circonda i misteri della fede come se fossero la verità; ancor meno le riconosco il diritto di usare la minaccia e il terrore esercitando, per imporre quella verità, il potere di privare i fedeli dei sacramenti.
Per me, nello sforzo di riflessione, un disaccordo apparente o reale con l’insegnamento della Chiesa è solo un motivo per sospendere per molto tempo il pensiero, un invito a spingere il più lontano possibile l’esame, l’attenzione e lo scrupolo, prima di affermare qualcosa. Ma è tutto.
Detto questo, io medito su ogni problema relativo allo studio comparato delle religioni, alla loro storia, alla verità racchiusa in ciascuna di esse, ai rapporti della religione con le forme profane della ricerca della verità e con l’insieme della vita profana, al significato misterioso dei testi e delle tradizioni del cristianesimo; medito su tutto questo senza nessuna ambizione di un accordo o di un disaccordo possibile con l’insegnamento dogmatico della Chiesa.
Sapendomi fallibile, sapendo che tutto il male che ho la pigrizia di lasciar vivere nel mio animo, vi produce certamente una quantità proporzionale di menzogna e di errore, dubito in un certo senso anche delle verità che mi sembrano evidenti e certe.
Ma questo dubbio, lo rivolgo in pari misura a tutti i miei pensieri, a quelli in accordo come a quelli in disaccordo con l’insegnamento della Chiesa.
Io penso e conto fermamente di rimanere in questo atteggiamento fino alla morte.
Sono certa che questo linguaggio non racchiude nes­sun peccato. Pensando diversamente, commetterei un delitto contro la mia vocazione, che esige un’assoluta onestà intellettuale.
Non posso discernere alcuna causa umana o demoniaca di questo atteggiamento; tale atteggiamento infatti non può che produrre pene, sconforto morale e isolamento.
Soprattutto l’orgoglio non può esserne la causa, poiché non vi è nulla che possa lusingare l’orgoglio in una situazione in cui si è considerati agli occhi degli increduli un caso patologico, poiché si aderisce a dogmi assurdi senza la scusa di subire un influsso sociale, mentre si ispira ai cattolici quella benevolenza protettiva, un po’ sdegnosa, tipica dell’arrivato nei confronti di colui che è ancora in marcia.
Non vedo quindi nessuna ragione per cui debba respingere la sensazione che ho in me, che cioè io resto in questo atteggiamento per ubbidienza a Dio, e che se lo modificassi offenderei Dio, offenderei Cristo che ha detto: «Io sono la verità».
D’altra parte provo già da tempo un desiderio intenso e sempre crescente della comunione.
Se si considerano i sacramenti come un bene, se li considero pure io così, se li desidero e se me li rifiutano, senza alcuna colpa da parte mia, non può non esserci una grave ingiustizia in tutto ciò.
Se mi si concedesse il battesimo, pur sapendo che io persevero nell’atteggiamento suddetto, si spezzerebbe una routine di almeno diciassette secoli.
Se questa rottura è giusta e desiderabile, se oggi in particolare essa si presenta come urgente e vitale per la salvezza del cristianesimo (cosa che a me pare evidente), bisognerebbe allora per la Chiesa e per il mondo che essa avvenisse in modo vistoso e massiccio e non per iniziativa isolata di un prete che amministrasse un battesimo oscuro ed ignorato.
Per questo motivo e per altri analoghi io non ho mai rivolto finora ad un sacerdote la domanda formale del battesimo.
Non intendo farlo nemmeno ora.
Tuttavia, sento il bisogno, non astratto, ma pratico, reale, urgente, di sapere se, nel caso che lo chiedessi, mi sarebbe accordato o rifiutato.

[La Chiesa avrebbe un mezzo facile per procurarsi quel che sarebbe per lei e per l’umanità la salvezza.
Dovrebbe riconoscere che le definizioni dei concili non hanno significato se non in relazione all’ambiente storico.
Questo ambiente non può essere conosciuto dai non specialisti e spesso nemmeno dagli specialisti a causa della mancanza di documenti.
Quindi gli anatema sit fanno parte della storia; essi non hanno valore attualmente.
Di fatto, li si considera tali, perché non s’impone mai come condizione per il battesimo di un adulto la lettura del Manuale delle decisioni e dei simboli dei concili. Un catechismo non ne è l’equivalente, poiché esso non con­tiene tutto ciò che è tecnicamente «di stretta fede» e contiene altre cose che non lo sono.
È d’altra parte impossibile scoprire, interrogando dei sacerdoti, ciò che è e ciò che non è «di stretta fede».
Basterebbe allora illustrare ciò che fa parte più o meno della prassi, proclamando ufficialmente che una adesione di cuore ai misteri della Trinità, incarnazione, redenzione, eucaristia, e al carattere rivelato del nuovo Testamento è la sola condizione per accedere ai sacramenti.
In questo caso la fede cristiana, senza il pericolo di una tirannia esercitata dalla Chiesa sugli spiriti, potrebbe esser posta al centro di tutta la vita profana e di ogni attività che la compone, e tutto impregnare, assolutamente tutto, con la sua luce.
Unica via di salvezza per i miserabili uomini di oggi.]

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